Talasari, India: vicini ai lebbrosi
Le Suore Canossiane sono giunte nei pressi di Talasari (Maharashtra) nel 1950, trovando una zona molto arretrata: non c’erano strade, ma solo piste battute; la vicina foresta era infestata dai serpenti; era molto difficile far arrivare alimenti, medicine e qualunque altra cosa. La vita era molto dura, ma le suore erano state inviate qui proprio per migliorare la situazione della popolazione e in particolare per promuovere la figura femminile in una regione abitata da tribali, in gran parte privi di istruzione. Tra le prime attività intraprese c’è stata la creazione di un dispensario. Molti dei pazienti che arrivavano erano colpiti dalla lebbra, e questo ha portato ben presto a una specializzazione della piccola clinica: accoglienza e cura dei lebbrosi.
Nel corso degli anni le suore si sono dotate di varie strutture per venire incontro alle necessità e lenire le sofferenze di questi fratelli: “i più poveri tra i poveri”. Attualmente c’è un ospedale per le situazioni più acute, ambulatori per chi non ha bisogno della degenza, un centro residenziale per chi si trova in fase di contagio avanzato, oppure è troppo anziano e spesso abbandonato dai familiari, per cui non può vivere da solo. Coloro poi che abitano nei villaggi e non possono affrontare la fatica del viaggio, sono raggiunti regolarmente e ricevono le cure mediche e assistenziali adeguate, grazie alla disponibilità di un’ambulanza donata dal Gruppo India, sostenuto dalla generosità dei suoi benefattori. Per poter portare avanti tutto questo lavoro, le suore hanno formato molti operatori, che collaborano con loro sia nelle varie strutture, sia girando nei villaggi. Anche questo è un risultato notevole, perché al loro arrivo erano pochissime le persone in grado di leggere, scrivere e svolgere un lavoro così delicato e importante.
Al centro dell’attenzione c’è sempre la persona, con i suoi problemi psicologici, le sue necessità fisiche che vanno oltre la lebbra, con i suoi aneliti spirituali e spesso anche con le sue difficoltà di convivenza, ma anche con le sue storie belle, come la nascita di un bimbo, o brutte come la scoperta di qualche altra malattia grave. C’è anche chi conclude qui il suo viaggio della vita… e allora se ne condivide il lutto. Si cerca così di creare una comunità in cui ognuno è sollecitato a farsi prossimo del fratello, invitandolo a rendersi utile come può, mettendo a frutto i suoi talenti: un paziente “ciabattino” si impegna ad adattare i sandali per coloro che hanno i piedi deformi o ulcerati; altri che dispongono ancora di un po’ di forza si offrono di coltivare l’orto e ne condividono i prodotti; chi sa cucire dà il suo apporto per la confezione di semplici capi di vestiario o per la cura della biancheria dell’ospedale.