Vogliamo ricordare la figura del nostro fondatore, padre Mario Pesce sj, attraverso le parole del confratello padre Armando Ceccarelli che ne ha disegnato un vivido ricordo durante la messa in sua memoria il 25/11/2017.
Sono passati undici anni dalla morte di p. Mario Pesce. Lo ricordiamo come se fosse ieri, muoversi nei corridoi di casa, sempre attivo, con quegli occhi vispi dietro le lenti degli occhiali, sempre accogliente ed esigente.
Nato nel 1917, è passato alla casa del Padre il 25 novembre 2006. Dopo il tempo passato in famiglia e negli studi fino alla laurea a Firenze, egli è entrato nella Compagnia di Gesù il 27 agosto 1940, dove terminava la sua formazione nel 1949. Tutto il resto della sua vita è segnato da tre grandi tappe:
– dal 1949 al 1963 alla Congregazione Mariana di Firenze
– dal 1963 al 1985 all’Istituto M. Massimo a Roma
– dal 1985 al 2006 in Via degli Astalli con il Gruppo India.
Tre tappe e tre costanti della sua azione apostolica.
I poveri al centro di attenzione
La caritativa nella Congregazione Mariana di Firenze era portata avanti dalla San Vincenzo. P. Pesce non intendeva la caritativa come un’azione verso i poveri, ma un atteggiamento che doveva informare tutta la vita del congregato, perché radicato nella preghiera e nei sacramenti. Era abitudine che prima di visitare i poveri si passava in cappella a visitare Gesù Eucarestia. Così il contatto con i poveri non si esauriva nella visitina, ma prevedeva la revisione personale e di gruppo, la preparazione della prossima visita e la procura delle risorse per non andare con le mani in mano. Niente sentimentalismi, né solo azione sociale nella carità verso i poveri, ma riflesso dell’amore di Dio Padre che ama tutti e vuole tutti fratelli.
Il carisma del formatore
Soprattutto il periodo fiorentino ha coinciso con l’azione e la presenza contemporanea di alcuni esempi insigni, come Giorgio La Pira, Davide M. Turoldo, Ernesto Balducci, il Cardinal Dalla Costa e Don Milani. Accanto a essi, anche se con minore notorietà, p. Mario si confrontò intellettualmente e nell’azione concreta. Come loro egli era un uomo tutto d’un pezzo, dai rapporti diretti e senza troppe mediazioni, assiduo e metodico nel cammino formativo dei giovani. Rifuggiva da ogni compromesso, perché lo considerava una violazione alla sua coscienza. Dotato di forte senso realistico nel conoscere le persone per guidarle al meglio di sé, univa a ciò una forte coscienza sacerdotale, che lo portava a operare per, con e in Cristo.
P. Pesce era un contemplativo nell’azione: uomo di preghiera, capace di attuare i progetti. Come educatore egli disponeva di due registri:
– la serietà dell’impegno: impegno proposto, mai imposto, perché scelto liberamente, e poi richiamato con energia alla coerenza.
– il carattere sempre insoddisfatto e desideroso che si facesse di più e meglio (MAGIS). In tal modo p. Pesce forgiava le persone. Sapeva essere esigente (diceva che ogni ragazzo ha un solo diritto, che gli si chieda il pieno sviluppo di tutti i suoi talenti), ma allo stesso tempo, comprensivo per ciò che ognuno poteva assimilare per poter crescere nei tempi giusti. Così è stato educatore per 22 anni all’Istituto Massimo. Si pensava che l’insegnamento della Religione in classe era complementare. No, per lui esso doveva costituire l’anima di tutti gli altri insegnamenti nel collegio: pretendeva che così fosse una scuola cattolica, cioè capace di far crescere una fede matura a tutte le età. Per questo pretendeva che i ragazzi, e gli adolescenti, acquisissero una solida dottrina, ma allo stesso tempo si impegnassero in servizi concreti e attività caritative. Considerando di ogni cosa la forma e la sostanza, diceva che nella nostra formazione forma e sostanza dovevano fare un tutt’uno.
Determinanti così erano l’apertura culturale durante gli studi e la sana etica professionale una volta acquisiti i titoli accademici.
L’animo missionario
Stando al “Massimo” ebbe l’occasione di incontrare madre Teresa e non gli sembrava vero di poterla invitare spesso a parlare alle classi dell’Istituto, per poi andare servire i poveri con le sue suore nei quartieri dove esse operavano, all’Acquedotto Felice e altrove in Roma. Fu così che poté accompagnare alcuni studenti fino in India. Da lì nasce il Gruppo India, che tanto bene ha fatto e che tanto bene continua a fare ancora oggi con tanti benefattori.
Spesso rimproverava alla Compagnia di Gesù di oggi il difetto di non dare tutto il carisma con la forza e la luce del Fondatore. Considerava la carità come un “sacramento” della vita di fede: nella carità esprimi e mostri ciò che credi.
Organizzava viaggi nei luoghi dove operavano i missionari e le suore in missione. E non lo faceva solo per cercare emozioni, ma per rendere concreto l’amore per il Regno di Dio avvicinando i missionari.
E voleva arrivare proprio a quelli che erano abbandonati da tutti, come certi lebbrosari e certi posti tanto squallidi di povertà. Tornava esclamando: “Dopo quello che abbiamo visto, non possiamo far finta di niente”.
Voleva che lo spirito che animava il Gruppo India facesse sì che i benefattori e coloro che procuravano fondi per aiutare i missionari, non fossero considerati come degli operatori sociali, ma che fossero considerati veri fratelli nella missione. Per questo non trascurava nessuna offerta, ma ognuna doveva ricevere una risposta scritta con un chiaro ringraziamento.
Era severissimo sul modo di spendere i soldi offerti dai benefattori: “Sono soldi dei poveri e non si possono tollerare sprechi o spese inutili!”
(padre Armando Ceccarelli, 25/11/2017)